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Pietro Mennea
di Roberto Mengoni, 22/04/2013

Ho pensato spesso con rabbia a tutti quei ragazzi che giorno dopo giorno hanno dovuto fare a meno di qualcosa, giorno dopo giorno sempre un po’ di più. Hanno dovuto spezzettare il pane dei sogni e lasciarlo cadere fino a quando anche dell’ultima briciola non è rimasto che un lontano ricordo.

Lo sport non è una cosa importante. Nonostante lo spazio che occupa nei media. Si può morire in uno stadio, ma che la coppa del mondo finisca all’Italia o alla Spagna non cambia le sorti dell’euro. Il ranking mondiale non si fa con le olimpiadi anche se è sicuramente meglio per un paese investire i suoi soldi nel creare supercampioni piuttosto che missili termonucleari.

Lo sport ha anche la stessa impalpabilità del sogno. La gloria è evanescente come una vittoria. Ad ogni ciclo di trionfi, segue un declino, una stasi. Gli stadi si riempiono all’arrivo della coppa e poi si svuotano quando si finisce in serie B. Qualche campione lascia prima che il declino sia evidente, come Alessandro Del Piero, altri, come Francesco Totti, riescono a sfidare la vecchiaia in modi che sanno di magia nera. Ci si può addormentare e sognare. Dopodiché il risveglio è sempre un po’ più amaro.

Quando ero piccolo, negli anni settanta, anch’io, come molti altri coetanei ci accontentavamo di sogni. La realtà era deprimente.
Quella reale e quella sportiva. Era un’epoca buia per il terrorismo rosso e le bombe fasciste, per l’iperinflazione (Topolino passò da 150 lire a 700 lire in meno di dieci anni) e per la televisione in bianco e nero (quella a colori gli italiani non se la potevano permettere).
Era un periodo di magra anche per lo sport italiano. Nel calcio non si batteva un chiodo: prendevamo legnate da tutte le parte, sia come nazionale che come club. Per dieci anni (1973-1983) nessuna squadra italiana riuscì ad approdare alla finale della Coppa dei campioni. Poi ogni tanto c’erano dei lampi che a me sembravano entusiasmanti, anche perché arrivavano da posti molto più lontani della provincia italica. Gimondi che vinse il Giro d’Italia nel 1976. Moser che diventò campione del mondo nel 1977 in Venezuela.

Poco o nulla dalla regina degli sport, l’atletica leggera. Ora, in quegli anni non c’erano ancora (tanti) africani a monopolizzare tutte le gare superiori ai 10 centimetri. I cinesi erano lontani. Ma ce n’erano di ossiduri: gli americani nella velocità; gli inglesi nel mezzofondo; gli scandinavi nel fondo; poi i tedeschi est e ovest, i sovietici a spartirsi il resto. Tra le donne c’erano solo americane e Patto di Varsavia.

Farsi largo, tra quei giganti, non era facile per un italiano. Finché si gareggiava intorno al Mediterraneo, insomma, qualcosa si rimediava. Ma era dura appena si metteva il naso fuori della Comunità economica europea. Gli italiani non erano abbastanza alti, abbastanza veloci, abbastanza forti, abbastanza tutto. Che frustrazione! A fine anni sessanta era approdato alla presidenza della FIDAL Primo Nebiolo, un signore piemontese con un gran fiuto per il marketing e il cui regno rappresentò, nel bene (e molto anche nel male), un’epoca d’oro per l’atletica italiana che riuscì a far decollare, tra la fine degli anni settanta e gli anni ottanta una sequenza di campioni irripetibili come Cova, Antibo, Bordin, Pizzolato, Panetta, tutti medagliati.

Poco prima di questi c’erano stati tre grandi atleti,Pietro Mennea, Maurizio Damilano e Sara Simeoni, le tre medaglie d’oro nell’atletica leggera a Mosca, l’olimpiade del grande boicottaggio. Questi atleti rappresentarono qualcosa di più di campioni dello sport. Fin dall’inizio furono il simbolo di cosa porta l’impegno e la passione, due qualità che allora sembravano il pane quotidiano dello sport. Come di tante altre cose.

Ero troppo piccolo per ricordarmi di quando Mennea, a vent’anni, arrivò terzo nella finale dei 200 a Monaco 1972, ma la vittoria a Mosca me la ricordo piuttosto bene, anche se all’epoca non ne colsi l’importanza, visto che quell’olimpiade era stata viziata dal rifiuto degli americani di partecipare, seguiti da metà del blocco occidentale, ma non dall’Italia che trovò il modo per scontentare tutti, apparendo senza bandiera e senza atleti militari. Forse la vittoria della Simeoni fu ancora più incredibile, visto che lei se la doveva vedere con le atlete marziane dell’est e fece una misura (1,97) che ancora oggi può avvicinare al podio. Sia la Simeoni che Mennea erano allora i titolari del record del mondo, fatto mai più ripetutosi nell’atletica italiana. La prima nel salto in alto (2,01 nel 1978), il secondo nei 200 metri (19″72 nella storica cavalcata a Città del Messico 1979).

Qualche giorno fa Mennea se n’è andato. Una morte silenziosa ed improvvisa, che ci ha lasciati un po’ più tristi di quanto non meriti questa disgraziata penisola. Sembra che i migliori non vogliano più restare qui.

Quando parlava, Mennea faceva fatica, sembrava drogato, come instupidito dalla fatica. Lo sapevano tutti che a Formia, dov’era la scuola nazionale di atletica leggera, Mennea era la vittima di Carlo Vittori, olimpionico alle olimpiadi della fame (Londra 1948), brillante allenatore con un carattere spaventoso, un duro che o ti spezzava o ti faceva rinascere. La voce trascinata di Mennea, che sembrava fare a cazzotti con le parole, erano la superficie dura di un orgoglio e di una mitezza d’animo di cui sono fatti i grandi italiani,  quelli che hanno perseguito i loro ideali (e i loro sogni) contro il cinismo, lo scetticismo e l’invidia della massa.



L’atleta pugliese non aveva grandi doti fisiche, ma ha partecipato a cinque olimpiadi, ottenendo una medaglia d’oro (Mosca 1980) e due di bronzo (Monaco 1972Mosca 1980), più lo storico record del mondo sui 200m, 19″72 a Città del Messico il 12 settembre 1979, che avrebbe resistito per diciassette anni.

Le sue doti: rabbia e testardaggine. La rabbia. Spesso, nella sua autobiografia (La corsa non finisce mai, Limina editore), usa questa parola. “Rabbia da riconvertire in energia esplosiva al momento dell’azione.” Una rabbia che veniva dall’essere nato in un’oscura triste terra del sud, Barletta, e dal desiderio di riscatto. Ha scritto che “il sogno vero, forse, è stato quello di poter fare l’atleta a tempo pieno rimanendo nella mia terra.” Quanti ragazzi italiani hanno pensato e pensano oggi lo stesso, magari non per diventare assi del Chelsea ma semplicemente per inseguire le proprie inclinazioni. Terra ingrata l’Italia. Dice Mennea che “nascere a Barletta e ostinarsi a sognare ha comportato il pagamento di un prezzo altissimo: la solitudine.”

Tre frasi di un sillogismo che sintetizzano la sua vita. Rabbia. Sogno. Solitudine. Mennea dovette andare lontano per diventare atleta. Sposò la solitudine, come un frate trappista, per 5842 giorni di allenamenti oltre i limiti umani. “Mi sono allenato a Natale e a Capodanno, a Pasqua, seguendo tabelle stilate con cura e magari aumentando i carichi previsti in esse, se mi accorgevo di non risentirne. Ho passato giorni e giorni da solo, a Formia, in pista la mattina, in pista il pomeriggio, un po’ di tv la sera e poi a dormire, senza una persona vicino. La mia casa era una stanza d’albergo, la mia famiglia i camerieri dell’hotel dove soggiornavo abitualmente.”

Al momento del ritiro restò nello sport senza clamori. Con lo stesso puntiglio ed orgoglio si buttò nello studio. Prese quattro lauree, divenne avvocato, tentò in un paio di occasioni di ritagliarsi un ruolo nella dirigenza dello sport, scontrandosi con il sistema di potere della FIDAL e del CONI. Divenne anche eurodeputato nel periodo 1999-2004, non importa per quale partito. Fece della lotta al doping una delle sue battaglie. Il suo atteggiamento di purezza e discrezione non è mai piaciuto al mondo sportivo, abituato a gente come i Carraro e i Pescante. Mennea ha dato sempre fastidio, e il tributo finale della camera ardente al CONI suona ipocrita come tutta la dirigenza sportiva nazionale, tanto prodiga con i morti quanto meschina con i vivi. Nel 1995, il suo nome fu stranamente dimenticato dalla FIDAL in occasione di una festa delle glorie dell’atletica italiana. Lo chiamarono all’ultimo momento. Mennea rifiutò.

La storia di Mennea è quella di tanti di noi. Appartiene a quelli che l’hanno seguito da bambini sui televisori in bianco e nero e ai ragazzi di oggi. Rabbia, sogno, solitudine. I nostri sogni più dorati sono costellati da queste spine.

pubblicato originariamente sulla rivista on line "www.lundici.it"




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