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Una Corsa Particolare
di Roberto Lombardi, 21/05/2011

Maurizio Zacchi, Anna Maria Ciani, Cristiano Giovannangeli, l'amico bulgaro e il pres.

Maurizio Zacchi, Anna Maria Ciani, Cristiano Giovannangeli, l'amico bulgaro e il pres.

Il Vivicittà che si corre nel carcere di Rebibbia è più di una corsa, questo è pacifico.
L'idea di correre in questo contesto, cioè liberi e reclusi insieme è stata un'idea grandiosa e ne darò conto di seguito. Cominciamo dall'inizio.

Amo correre. Ho corso di notte, di giorno, all'alba, al tramonto. Stavolta la sfida arrivava da un ambito a me sconosciuto: una prigione.

Avevo letto la Solitudine del maratoneta di Allan Sillitoe, che narra la corsa di un recluso, avevo fatto dei lavori ai tempi degli studi in cui avevo parlato con persone che in carcere ci lavoravano, ma niente di più. Tuttavia rimaneva una grande curiosità di fare esperienza di questo mondo. Si, scusate la sincerità, ma era proprio curiosità di vedere dal di dentro un mondo sconosciuto ai più.

Non nascondo che me ne vergognavo. Comunque, detto questo, ero molto motivato a correre a Rebibbia. Detto fatto, mi preparo mentalmente, preparo le mie gambe per quelli che dovevano essere 12km e che poi sono divenuti 10. Ed eccomi lì, all'ingresso del nuovo complesso, insieme ai corridori esterni, faccio tutte le formalità del caso.

Non è altro che un check-in, come in tutti gli alberghi. Chiudono i cancelli alle nostre porte. Il sole è alto e siamo vicini ai 30 gradi. Attendiamo tutti in un piazzale interno. Si chiama “Borgo Nostro”, ci sono gazebi e personale più o meno volontario che tra poco distribuirà i pettorali. I miei occhi scrutano intorno a cercare di capire, cogliere fette di umanità, momenti di vita. Ma tutto scorre tranquillo. All'improvviso avviene qualcosa che non mi aspettavo: arriva il primo gruppo di atleti interni che effettuerà la corsa.

Dentro me avviene uno sconvolgimento. Ho paura. Tutti sono più o meno tatuati. Molti sono grandi fisicamente. Alcuni volti sembrano segnati dalla vita. Cerco di razionalizzare, ma è più forte di me. Sono a disagio. Non so se e come avvicinarmi.

Loro rimangono in disparte, scherzano tranquilli. Intanto le formalità di rito continuano e siamo pronti per partire. La tensione scende. Parte la corsa di 4 km e tutti facciamo il tifo. Finisce tra gli applausi in meno di mezz'ora e i corridori dei 10 mila partono subito dopo. Io sono uno di quelli. I miei occhi scrutatori si guardano intorno.

Siamo all'interno del Nuovo Complesso e dalle celle i detenuti fanno un gran baccano giocoso, ma nulla di violento. Il caldo sta avendo la meglio e il mio ritmo è veramente blando, ma non mi preoccupo: non sono venuto qui per fare il personale. I km passano tranquilli e in tutta pace mi avvio ad arrivare ultimo senza sentirmi minimamente avvilito. Alla staffetta 24X 1 ora all'una di notte con la grande compagna di squadra Giuseppina Madonna, prima di cominciare il nostro turno ci siamo detti quanto sia poetico arrivare dopo tutti.

Ma eccomi lì, in dirittura d'arrivo. Nessuno mi sta aspettando a parte il Presidente come una chioccia che aspetta i pulcini che rientrano. La premiazione è già cominciata. E qui succede qualcosa che non mi aspettavo. Ricordate il film Rocky IV? C'è una delle scene finali, in cui in Russia Rocky riceve l'incoraggiamento del pubblico, che ora è tutto dalla sua parte. Bene, dentro di me avviene la stessa cosa. Quelli che vedevo come “i carcerati” sono divenute persone normali. Vedo ritirare coppe e medaglie a corridori come me, uomini come me. Né mostri né nemici. Sono sereno, adesso. Partecipo al Pasta Party un poco, ma mi accorgo di essere davvero stanco e devo fare 40 km per tornare a casa con poche ore di sonno negli ultimi due giorni.

Chiedo ad una guardia la strada per uscire e lui mi domanda “ in che braccio devi andare?” Mi aveva scambiato per un detenuto. Confesso che tutta la vita mi hanno detto che avevo una faccia da brava persona, forse anche da persona religiosa. Questo cambiamento non mi da affatto fastidio. Ma questi sono dettagli.

Il ritorno a casa è stato difficile. Uscire dai cancelli, rivivere dopo una pausa di qualche ora, la dimensione della libertà di movimento, che diamo per scontata non è stata cosa facile. Ho sentito tutta la sofferenza di quello che è un carcere: promiscuità con estranei, limitazioni di ogni genere, condivisione di spazi angusti, comprese docce, sanitari e lavandini. Questo mentre le coordinate spazio-temporali vengono ridisegnate e limitate.

In tutto questo processo uomini come me perdono umanità, possono diventare peggiori e i loro sbagli possono essere amplificati, vengono identificati con i loro errori. Adesso capisco il disagio iniziale: ho identificato uomini con i loro sbagli.

È importante correre in carcere. Per me sarà un appuntamento fisso in futuro. Pino Coccia lo ha ribadito ritirando il premio che abbiamo vinto. “Saremo di più in futuro e torneremo ancora”. Certo, Pino, certo, compagni di squadra, saremo di più perché correre non conosce discriminazioni o luoghi in cui questa attività è preclusa.
Quando corriamo siamo tutti uguali e, anche a livello simbolico, sulle proprie gambe e verso un traguardo raggiungiamo tutti una piena umanità.

Roberto Lombardi


Eleonora Piroli

Eleonora Piroli

Gara: Vivicittà nel Carcere di Rebibbia (20/05/2011)

SCHEDA GARA



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