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C'è sempre una prima volta. E davvero non si scorda mai.
di Gianluca Iacoangeli, 06/11/2013

Sono partito, da Roma, dal ponte di Verrazano, da me stesso.

Sono partito quando un colpo di cannone ha fatto vibrare l'aria gelida di Staten Island e ha lasciato scorrere, oltre ai fiumi di adrenalina, la voce di Frank Sinatra accompagnando alla partenza decine di migliaia di runners ai piedi della prima salita. New York da il benvenuto alla sua maratona dopo la rinuncia del 2012 a causa dell'uragano "Sandy".

Via! Si va. Dove di preciso non lo ho mai saputo, per me questa è stata la prima maratona, percorso visto su carta, voci, impressioni, indicazioni tecniche e vibrazioni tutte da scoprire. Bene, dal primo all'ultimo chilometro è stato un emozionante susseguirsi di stati d'animo; da Verrazano saliamo e scendiamo nella bolgia, una bolgia tutta per noi. Il primo cartello che leggo, ancora a mente fresca è: go! Brooklyn welcomes you! Go!

E allora vai, proseguiamo, ad ogni 500 metri c'è un gruppo musicale, passo da "where the streets have no name" degli U2 ad un pezzo rap, poi gospel, poi afro, poi latino. Mi dico: ma dove sono, che succede, perché non mi fermo ad ascoltare? Ma no, questa è una maratona e bisogna correre! E allora corro, ansimo, sudo, bevo, rido, soffro il freddo, ascolto il vento con orecchie e faccia, e vado, c'è il quartiere del Queens che ci attende, la gente è lì, ci incita, ci dice: vai Italia!!

Non credo di poter spiegare quello che ricevo insieme ad altre migliaia tra Brooklyn e il Queens, qualcosa di incredibile, una energia strepitosa, mi sento, ci sentiamo, quasi degli eroi, forse se tutta quella gente ci incita in quel modo lo siamo davvero, mi dico. Ma io ho un appuntamento, preso da tempo, che so che arriverà duro e puntuale come un cazzotto, appena superato il Pulaski Bridge. È da il' che comincio ad intravederlo, è proprio lui, il temibile e silenzioso Queensborough bridge, austero, tenebroso e senza una persona, solo runners. Ci avviciniamo, i compagni di avventura non fiatano, non ansimano più, cominciamo a salire in un silenzio quasi religioso, molti camminano, non una parola, questo ponte si rispetta.

Io fino a quel punto sono nella mia media, siamo quasi al trentesimo km e sono sotto le tre ore, mi sento bene, le gambe vanno, affronto la salita e rallento, mi dico che tanto poi c'è la discesa, lì qualcosa la recupero, ci sono con la testa, mi sono idratato, all'inizio ho fatto il bravo, il resto lo fa il contesto. Eccola, la discesa, mi sposto sulla sinistra e comincio a scendere con gli altri l'ultima rampa che mi e ci porta nel cosiddetto "stadio". Dal silenzio assoluto riecco le grida, riecco il caos, improvviso, riecco New York che era lì ad aspettarci. Metto il piede su Manhattan, ci siamo, trentunesimo chilometro, la first avenue sia apre come un mare davanti ai miei occhi che non riescono a capire dove finisce! Un mare, un oceano di runners, un oceano di supporters ai lati, meraviglioso. Non fa niente se dopo la discesa la mia gamba sinistra, bandelletta prima e flessore poi, si ricordano che hanno da mesi dei problemi, non fa niente.

Manhattan nella lingua dei "nativi" significa "Isola delle colline". Ed è così, difficile ricordare un tratto pianeggiante, ora più che mai. Bandelletta andata, flessore quasi, devo rallentare e, coscienziosamente, puntare all'obiettivo primario, la finish line. E così faccio. Il cuore in gola, la paura di non farcela e poi di nuovo il coraggio. Gli ultimi 10 kilometri sono tutto questo. Vai, corri, go man, go!

Finalmente la first avenue è finita ma non la Fifth avenue, che invece è appena cominciata. Mi dico: bene, anche questa è infinita e non si intravede una curva ma so che ci porta dentro Central Park, una curva ci sarà. Dolori al ginocchio, siamo al trentottesimo kilometro. Dai, ok, rallenta, cammina un po', non pensare al tempo, continua a costeggiare central Park che ci sei. All'improvviso la visione: finalmente entriamo nel parco, siamo a Columbus circle, mancano tre miglia, riprendo fiato, riparto poi mi rifermo, il dolore è aumentato ma non fa niente. Poi mi curerò. 2 kilometri, ancora salite e discese, la folla urla, l'aria sembra più fredda sulla faccia fino a quando vedo la parte finale del percorso che riconosco per esserci stato da spettatore alla cerimonia di apertura, qualche ora prima.

Ultimo chilometro e mi dico: per orgoglio, cancella il dolore e corri, vai. Riparto e corro, non so più chi sono, so che quello è il traguardo e so che c'è l'ho fatta. Lo passo, mi prendo complimenti e medaglia, sono in un altro mondo, sono un maratoneta! Avevo sempre pensato che sarebbe stato fantastico, così è stato.

Ma a New York va dato il merito di aver reso tutto veramente, assolutamente indelebile, scolpito a fuoco dentro di me, come scolpito resta nella mia memoria il senso di appartenenza e di affetto che l'evento mi ha regalato. Questo è stato, questa è stata la mia prima maratona.

Scrivo mentre sono in attesa del volo che da Madrid mi riporterà a Roma col mal di testa e una stanchezza indicibile. Mi gira nella testa la sequenza 4:32.06. Chissà perché.... Ripenso al percorso e mi dico: ora lo conosco, see you next time man!

Gianluca Iacoangeli


Gianluca Iacoangeli

Gianluca Iacoangeli

Gara: Maratona di New York (03/11/2013)

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