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La mia prima maratona di Roma 2009
di Enrico Bernabei, 25/03/2009

Gianni Serafini

Gianni Serafini

Sono le 6 di mattina quando un occhio, il primo, s'apre ferito dalle prime luci che attraversano la serranda. La prima gara l'ho già vinta, son arrivato prima io della sveglia. Mi muovo lentamente per casa, ma è inevitabile fare rumore. La borsa ai piedi del letto sembra sonnecchiare, ancora immobile come l'ho lasciata la sera prima, mentre le mie fide scarpe attendono impazienti, forse non immagino cosa aspetta loro. Mi vesto lentamente controllando sempre l'orologio.

Colazione. Cosa si mangia prima di correre per 42 km e passa? Ho sentito di tutto, da chi si prepara la pasta nel cuore della notte a chi fa abbuffate una settimana prima. Io mi accontento delle solite fette biscottata con la marmellata. Ancora rigoroso silenzio. Accendo i telefoni, ne lascio uno sul comodino della mia dolce metà, la saluto piano per non svegliarla del tutto, lei mormora "non fare ca...volate mi raccomando". Si riferisce al mio ginocchio malandato. La rassicuro. Le dico stai tranquilla. Ed intanto penso che oggi non mi ferma nessuno. Lei sente il mio pensiero, sa quello che sto pensando, sa della mia stupida cocciutaggine e mi ripete "...mi raccomando". La vedo riaddormentarsi. Esco di casa.

Il giorno è ormai nato, nuovo, brillante, pieno
. Non c'è vento e questo mi mette di buon umore. Ho fatto un lungo di 32 km in allenamento con il vento in faccia e l'ho finito che non mi reggevo in piedi. La moto parte, fa così tanto casino nel silenzio della mattina che rischio di svegliare tutto il vicinato. Le strade sono deserte. Arrivo alla fermata della metro e mi si parano davanti altri tre con lo stesso zainetto della Maratona. Si inizia a respirare un clima familiare. Passo il varco mostrando il pettorale ed il petto orgoglioso di non dover pagare, sono uno che va a fare la maratona io sai! Poi penso, chissà come andrà a finire. Vorrei d'un tratto essere già sulla linea dell'arrivo, con la fatica e tutto il resto, dolori ed emozioni incluse. Invece mi ritrovo a camminare velocemente, che di correre per il momento non se ne parla, per non perdere la metro. Salgo.

Sul vagone insieme a me c'è un gruppo di stranieri, anche loro diretti alla gara, mi fanno un cenno per salutarmi, li saluto. Il treno parte. I maratoneti aumentano ad ogni fermata sino a riempire insolitamente l'intera metro. Quando scendiamo alla fermata Colosseo invadiamo la strada, già piena di gente in tuta o calzoncini che brancola cercando di smaltire la tensione. Ritrovo in via dei Normanni. Lì c'è il mitico presidente ed un già nutrito gruppetto di Orange. Foto di rito sulle scale del roseto e quattro chiacchiere per allentare quel blocco che mi si sta piantando sullo stomaco. Poi alle 8.15 tutti liberi e via, al deposito bagagli; ci si cambia dove si trova un centimetro quadrato disponibile, l'appuntamento con un orange che poi non sono più riuscito ad incontrare, il passaggio al cancello, l'imbocco sulla via dei fori imperiali.

Ma quanti saremo? Ci sono spagnoli, tedeschi, francesi, americani ed italiani da tutte le parti della penisola. C'è chi indossa tute da RIS per non sentire il freddo, chi decide di rimanere in canottiera da subito, come me. L'attesa è lunga, anche se mancano solo cinque minuti, sembrano un'eternità. Poi lo sparo, il via, i gruppi si compattano, si corricchia all'inizio facendo attenzione a non inciampare negli indumenti lasciati in terra. Ascolto il mio corpo. I segnali sono i soliti. Saluto il mio ginocchio che non tarda a farsi sentire. Sono contento così. Meglio sentire un dolore che si conosce piuttosto che ritrovarsi a tu per tu con qualcosa che non si sa. E poi quel chiodo dentro che non molla m'aiuta a distrarmi da tutto il resto, ad essere concentrato su tutto il resto.

Circo Massimo, viale Aventino, viale Ostiense, e poi viale Marconi, il Lungotevere, Trastevere e Testaccio fino ancora al Lungotevere, l'isola Tiberina ed ancora oltre. Iniziano i luoghi della mia infanzia, prima il Virgilio, poi la scuola elementare che ora è un carcere minorile! E poi la parrocchia di San Giovanni dei Fiorentini, ed infine il luogo dove sono nato e cresciuto, via Paola con sullo sfondo il ponte Sant'Angelo e l'omonimo castello. Non posso trattenere le lacrime. Per fortuna gli occhiali le mimetizzano in gocce di sudore. Tiro un sospiro e vado avanti. Quel groppo che fino a poco fa bruciava nello stomaco è scomparso. E capisco che lo tenevo lì per quel momento. Per quell'incontro col mio angelo custode. La saluto col pensiero.

Ora volo, le gambe sono leggere, le ginocchia si fanno ancora sentire, ma ormai mi ci sono affezionato a quel dolore e non vorrei che se ne andasse più. Si prosegue. Ancora i luoghi della mia vita, piazza Cavour, San Pietro, piazza Risorgimento, fino a piazzale Clodio, viale Mazzini, piazza Mazzini della mia dolce metà, fino al lungotevere, lo stadio Olimpico e ponte Milvio. Poi si esce un po' fuori per rientrare dalla parte dell'Acqua Acetosa. Nel frattempo incontro due compagni. È il ventottesimo chilometro. Alessio Gigli e Jan Peter Grunewalder. Mi ospitano volentieri. Quattro chiacchiere e la strada si fa più corta. Si scherza sull'epilogo di questa meravigliosa passeggiata. Si pensa ai sampietrini che tra poco ci attendono e ci si scherza su cercando di esorcizzarli.

Ancora lungotevere, stavolta dall'altra parte. Un'interminabile fettuccia che ci mangiamo letteralmente più veloci che se fossimo in auto in una giornata feriale. All'imbocco di via di Ripetta c'è qualche sparuto sostenitore. C'è da dire che i più caciaroni, al contrario di quanto si dice, sono gli stranieri. I romani, popolo di automobilisti per antonomasia, sono un po' riluttanti ad incitare chi ha osato paralizzare la città per un'intera domenica. Arriviamo nel frattempo a piazza Navona. Fa un po' impressione correrci senza biga!!! Tra le urla isolate di qualche ultras e gli sguardi attoniti di chi cerca di gustarsi il suo aperitivo domenicale, continuiamo la nostra agone. Corso Rinascimento e poi finalmente il trentacinquesimo. Là ad attenderci c'è mio cognato Antonio Di Giorgio, con il quale son rimasto d'accordo per farmi scortare sino all'arrivo. Scherzando si lamenta che m'ha dovuto aspettare e si è infreddolito. Mi scuso per non essere riuscito ad arrivare prima, purtroppo ho incontrato traffico! Con l'arrivo di D'Artagnan Antonio siamo ormai in quattro come i moschettieri. Procediamo. Via del Corso. La testa rivà ai sabato pomeriggio della mia giovinezza. A quante volte ho percorso in lungo ed in largo quella strada gremita più che questa mattina.

Mi sveglio. C'è qualcuno che mi chiama, è la mia dolce metà coi miei cuccioli che sono venuti a vedermi! Il cuore impazzisce, le gambe ripartono, il petto si gonfia ancora. Penso che mancano ancora sei chilometri. Cosa sono sei chilometri? Nel frattempo Antonio si è fermato per prendere dalla dolce metà i carboidrati in gel. Me li porta. Grazie Antò. Ci attendono i sampietrini di piazza del Popolo, poi quelli di via del Babuino e di piazza di Spagna. Non ho mai visto Roma così, tutta d'un fiato. La gente ai bordi s'infittisce, forse perché ormai è quasi ora di pranzo. Fontana di Trevi e sampietrini. Quando imbocco la strada che in discesa porta a piazza Venezia capisco che ormai è finita. In realtà mancano ancora più di due chilometri e mezzo! Ma non importa. Provo ad allungare il passo. Sento che il corpo risponde.

Per via Petroselli, al passaggio del quarantesimo sento le mie gambe volare. Capisco d'essere trattenuto prima, d'aver risparmiato energie e ne sono felice. Per giorni la mia testa ripeteva, mi raccomando non forzare, mi raccomando tieni il ritmo stabilito e basta, mi raccomando l'importante è finirla e se possibile finirla bene. Ora sento che è così. Il Circo Massimo ora ha una luce diversa. Antonio mi chiede come va. In lontananza vedo il segnale del quarantunesimo e dentro di me una voce inizia a gridare, è fatta erri, è fatta. Le lacrime le ho consumate tutte prima, non c'è tempo per piangere nè per gioire, bisogna correre. Via di San Gregorio, manca un chilometro. Rallento leggermente per la salita finale.

Sento il presidente ai bordi della strada incitarmi. Sono felice. Spero d'aver onorato questa maglia arancione al meglio. Infine la discesa. le gambe vanno ormai da sole. Antonio mi incita. Sei arrivato mi dice. Ho la forza pure di sprintare, vabbè forse ho esagerato, di correre un po' più velocemente! Passo il traguardo, blocco il crono. Ed ora? Vorrei saltare, gridare, inginocchiarmi e baciare il suolo, vorrei abbracciare tutti quelli che incontro. Però non faccio nulla di tutto ciò. Mi metto in fila, mi infilo in silenzio la mia medaglia, consegno il chip, mi vesto col mantello argentato per ripararmi dal vento, ritiro il pacco ristoro. Siamo tanti.

C'è uno strano silenzio in sottofondo. E capisco che non è la fatica nè la sete nè la fame nè il mal di gambe a farci stare così surrealmente e dignitosamente silenziosi. È il rispetto. Per tutti i chilometri che abbiamo corso per mesi per preparare questa gara, è il rispetto per le donne e gli uomini che non possono correre come noi, è il rispetto per chi fa veramente cose straordinarie: è perché da subito si intuisce che quella linea che abbiamo varcato non è la fine ma solo l'inizio.

Noi siamo solo dei messaggeri che portano per il mondo la loro magica parola.
Correremo ancora per annunciare agli ateniesi la nostra vittoria.

Enrico Bernabei


Enrico Bernabei

Enrico Bernabei

Gara: Maratona di Roma (22/03/2009)

SCHEDA GARA



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