Ecomaratona del Gran Sasso - Una domenica sul Piccolo Tibet di Ettore Golvelli, 21/08/2014
Correre una corsa in alta quota, su delle montagne di classe, è sempre una grande emozione soprattutto quando la stessa si dispiega fra i paesaggi splendenti e severi del Gran Sasso; quando correndo sfioreremo e spesso oltrepasseremo i duemila metri di altitudine attraversando morbidi e lussureggianti valloni che ancora recano le tracce dell'antica pastorizia, sotto svettanti e mistiche creste rocciose che hanno condiviso la vita spirituale di un grande Santo, davanti a manufatti storici che hanno scritto una pagina di storia nell'ultimo conflitto mondiale. E tutto questo in uno spazio suggestivo, quasi poetico, che ha meritato il soprannome di "Piccolo Tibet".
Ma veniamo alla corsa....
Siamo ad Assergi, un piccolo paesino appollaiato sulla cima di una grande e antica roccia e lontano dalle insidie della Grande Montagna; un grazioso borgo che, con le sue antichissime mura ancora ben conservate, con le case in pietra e la solitaria torre dell'orologio che segna da secoli il tempo che fugge, conserva ancora oggi la sua straordinaria antica ed intatta bellezza.
Si parte da Fonte Cerreto, dalla stazione della funivia per imboccare il sentiero che parte alle spalle della biglietteria e dopo un piccolo imbuto, dove si passa uno alla volta, si entra in un bel bosco (Bosco Alvaneta).
Il sottobosco è di un bel verde e la pineta copre, con un tono cromatico più cupo, la china del colle mentre vicino, più vasta, la faggeta brilla di mille sfumature e si distende verso la valle sottostante.
Adesso un vento tiepido, forse venuto dal mare, risale il colle facendo cantare gli alberi e la luce dell'estate penetra a tratti i fitti rami dei pini, con chiazze di giallo tra le più vaste ombre della pineta. E lo spesso strato di foglie di pini che macerano nel sottobosco spande un odore di humus profumato mentre, al sole, le belle fioriture sui piccoli prati attirano sciami di laboriosi insetti.
La fatica di questa dura salita ed angoli gradevoli e attraenti del bosco catturano il mio sguardo e mi invitano piacevolmente ad una pausa. Guardo in alto e vedo che il vento caldo si è fermato e il cicalare degli uccelli riempie il silenzio annunciando adesso una fresca brezza dovuta alla nuova quota. Questo primo scorcio di montagna appare meno rude e severo accanto al massiccio roccioso e della piana sterminata che si comincia ad intravedere ad Ovest.
Continuo a salire e appena si finisce di costeggiare la fitta abetaia, dopo un po' di tornanti e curve da mozzafiato (Ah, dimenticavo di dirvi che stiamo ancora facendo il chilometro verticale) si arriva sotto i resti della Stazione Intermedia, abbandonata ed in disuso (1619 m.).
Adesso il sentiero si fa molto più ripido costeggiando il costone sinistro dei Valloni e si prosegue per tornanti e curve superando il terzo pilone della funivia fino a Fonte Pratoriscio..
La dura salita mi sta veramente ammazzando e per ingannare il tempo lungo le lenta ascesa fino a Campo Imperatore, rifletto e... forse non sempre in modo positivo.
Il Gran Sasso, visto da qui, non sembra un gran che, in questo paesaggio che somiglia un po' agli altopiani dell'Asia: infatti la misera prominenza a forma di tenda situata sopra la principale catena montuosa indicata come il Gran Sasso non sembra per niente l'Ararat. La riguardo bene per non sbagliarmi ma è così: in realtà la più alta vetta dell'Appennino, vista da questo lato, è una modesta cosa.
Sotto il sentiero, nei profondi burroni, il paesaggio è carsico e le crepe di pietra bianca intagliano i prati nei quali una mandria di mucche pascola in abile equilibrio.
Più in la le foreste appaiono immense ed impenetrabili, vasti boschi costellati di possenti abeti bianchi e betulle si alternano a cerrete, quercete e castagneti ove, in autunno, riecheggia il bramito dei cervi in amore.
Un ombra veloce mi sorpassa ed alzando la testa vedo in alto una grande cabina che luccica al sole prima di sparire nella stazione finale di Campo Imperatore. È una cabina della Funivia del Gran Sasso, una delle funivie più lunghe d'Europa con una storia che risale agli anni trenta.
Arrivo finalmente a Campo Imperatore e la cosa più importante per me è il ristoro perché la salita mi ha letteralmente prosciugato e il Pit Stop a 2130 m. è veramente piacevole.
Mentre bevo e mangio qualcosa mi guardo intorno e mi godo uno spettacolo stupendo che mi ripaga lo sforzo sostenuto.
Ciò che maggiormente colpisce ed affascina a Campo Imperatore sono gli spazi, le vaste dimensioni che sono sempre visibili, grazie anche alla vegetazione che è esclusivamente erbacea; e questo perché l'esposizione e la centralità del massiccio ne fanno un area dal clima continentale, freddo in inverno e fresco in estate ma quasi arido sui dossi e sulle creste.
E gli sterminati pascoli sono utilizzati per l'alpeggio estivo delle greggi di ovini e delle mandrie di bovini ed equini che d'inverno transumano in Puglia, in un rito che si ripete da migliaia di anni.
Su questo altopiano si è consumata, in una profonda solitudine spessa rotta da forti momenti emotivi, la dura vita di generazioni di pastori.
Io, nella mia vita, ho girato tante montagne del Bel Paese ed ho sempre visto questa gente vivere aggrappata alle sue pietre, persa a volte tra prati sterminati, rubando la sopravvivenza agli umori di Madre Natura. Ho visto il loro volto continuare a tradire l'assoluta devozione alla magia della pietra e del legno. Se provaste a mangiare il loro povero pane di segala e grano saraceno, messo a seccare in madie di legno corroso dal tempo, sentireste il sapore di un mondo in bilico tra antica coscienza e ricordi sbiaditi.
E questi sono i pastori, uomini con le rughe che sorridono, uomini che non hanno mai lasciato le montagne, uomini che fanno un lavoro che nessuno più vuole, uomini contenti di avere qualcuno con cui parlare per snocciolare aneddoti ed antiche storie. Storie di vita raccontate a volte con qualche luogo comune ma certo sempre con sincerità e rispetto, gente testimone di un passato che si aggrappa e resiste ancora, chissà fino a quando, in queste montagne bellissime e lontane dal progresso e dalla modernità'...
......Riapro gli occhi e, dopo un altra lunga bevuta, guardo giù, in fondo ai valloni..... l'orizzonte si estende, gli spazi si allargano, le dimensioni diventano immense quando ci si affaccia sul balcone di Campo Imperatore.
L'altopiano è enorme ed il pendio sale dolcemente in un alternarsi di piacevoli pianure alluvionali di origine lacustre, con morene lasciate dagli antichi ghiacciai, nivomorene, circhi glaciali, brecciai e fiumane, pareti rocciose.
Le cime che delimitano e circondano quello che viene comunemente chiamato "il piccolo Tibet" (fu il noto alpinista Fosco Maraini che lo paragono' all'altopiano asiatico) sono tra le più elevate e suggestive dell'Appennino. Ed ognuna di essa ha una sua magica storia:
- la Scindarella, una montagna che sembra avere un solo scopo, quello di far sipario al vero spettacolo rappresentato dall'improvvisa comparsa nella scena del Corno Grande;
- Monte Portella con i suoi spettacolari circhi glaciali;
- il Corno Grande che domina dall'alto delle sue quattro vette;
- il dolomitico Brancastello dalle tormentate forme ricche di canyon e di stelle alpine dell'Appennino che sembra, verso agosto, esca solo sulla sua cima;
- ed infine l'erboso versante di Monte Camicia.
Adesso le cime chiudono, potenti, il panorama al di la della Conca di Campo Imperatore; ma qui le creste sono più arrotondate e solo il Monte Meta ripropone una pur modesta piramide rocciosa.
Riporto di nuovo lo sguardo sulle montagne più imponenti del Gran Sasso e sorrido per la sorprendente esperienza che sto provando in questo momento: qui le crode e le guglie trasformano l'Appennino facendolo sembrare un angolo delle Dolomiti scivolato al Sud.
Quassù il punto di vista si eleva, nettamente, al di la di ogni altra cima circostante; l'orizzonte si allarga all'infinito verso i due mari che non si vedono ma si intuiscono.
Ora il calcaree delle rocce brilla al sole e quasi si confonde con le ultime chiazze di neve che hanno resistito, protette dall'ombra.
Rivolto verso Nord, la cresta del Corno Grande racchiude, come in uno scrigno, il ghiacciaio più meridionale d'Europa: il Ghiacciaio del Calderone, anche se adesso è stato declassato a semplice nevaio, e questo per la conseguenza dei cambiamenti climatici.
Adesso riabbassando lo sguardo, i miei occhi incrociano i vari manufatti sul pianoro di Campo Imperatore: il Giardino Botanico, dedicato alla coltivazione e allo studio della flora d'elevata altura; la Stazione Meteorologica; le cupole dell'Osservatorio Astronomico ed infine lo storico Hotel dove fu tenuto prigioniero Benito Mussolini e liberato dai tedeschi con un blitz fenomenale, con il suo piazzale da cui una aereo cicogna, con un audace volo, porto' via il Duce a Pratica di Mare e poi in Germania.
Lascio il confortevole ristoro e ricomincio a salire..... lungo il sentiero che costeggia l'Osservatorio e sale per tornati a zig zag su ghiaia ed erbe fino al bivio per il rifugio Duca D'Abruzzo. Il tratturo è tutto pietre e ghiaia e segna a mezza costa il lungo costone della Portella.
Adesso il tratto finale mi porta finalmente al punto più alto della corsa: la Sella di Monte Aquila (2357 m.) sbucando nel meraviglioso anfiteatro di Campo Pericoli che appare come un gigantesco imbuto verso Val Maone.
Adesso il panorama è stupendo.
Sotto, le pendici del Corno Grande sono ancora nell'ombra, avvolte da umide nuvole; sopra il sole colora di riflessi dorati le guglie del monte. Guardo in alto: Il cielo è di cobalto e un gracchio vola lasciandosi portare dal vento.
Tutto intorno l'entusiasmante acrocoro delle vette del Gran Sasso con le cime arrotondate nei secoli dal vento: il Corno Grande (2912 m.), Monte Corvo (2623 m.), l'Intermesoli (il piccolo Cervino dell'Appennino -2635 m.), e soprattutto il Cefalone (2533 m.), una montagna ricca di storia, di religione, una montagna mistica: la montagna di San Franco.
E adesso ragazzi vi devo raccontare una storia particolare, una storia che riguarda questa bellissima montagna.
Da sempre il territorio del Gran Sasso è stato scelto da santi ed eremiti alla ricerca di posti in cui coltivare la propria spiritualità, lontano da ogni distrazione del mondo "secolare", veri e propri "luoghi dell'anima" immersi nel silenzio e nella quiete di queste montagne maestose.
Lassù, in alto, laddove neanche gli alberi riescono a crescere, un tempo viveva un eremita che su di una montagna a tre punte, ne fece la sua casa: si chiamava S.Franco e viveva in una delle grotte anguste e dall'accesso difficoltoso. Quando si entra in questi antri la sensazione che si prova è straordinaria: ci si incanta a guardare "il guanciale" di S.Franco, un piccolo incavo dove l'eremita poggiava la sua testa prima di addormentarsi.
Accanto al "guanciale" un piccolo ripostiglio naturale dove il Santo poggiava il suo breviario prima di addormentarsi, dopo le lunghe ore di preghiere e silenzio. Ma questo silenzio era spesso rotto dai pastori che salivano fin lassù, con i greggi. E così S. Franco abbandono' anche questo luogo per spingersi ancora più in alto, in luoghi ancora più impervi.
È arrivo fin lassù, sotto la vetta del Cefalone, in un luogo difficilmente accessibile in estate e inaccessibile in inverno per la neve.
E qui finalmente S.Franco trovo' la sua pace ed il suo silenzio più assoluto, un silenzio che solo una grande montagna riesce a dare. Una pace nella solitudine più profonda, lontano anche da quei pastori che si spingevano ad alta quota e che tanto lo amavano.
S.Franco abito' in questa grotta fino alla sua morte. Quando avvenne i galli cantarono di notte e una luce indico' il sentiero agli abitanti di Assergi, che si recarono all'eremo per prendere il corpo e condurlo giù in paese, nella Chiesa di S.Maria in Silice, dove è ancora conservato.
E morì lassù, dove nessun essere vivente arriva e dove solo le pietre possono ascoltare i pensieri, perché solo così si può arrivare a comprendere l'eternità.
Nella prima grotta dove visse, adesso c'è una piccola cappella incastonata nella roccia al quale si accede tramite un arco in pietra, a 1730 m. di altitudine.
Sotto la cappella sgorga una sorgente di acqua freschissima, una sorgente che, secondo la leggenda, S. Franco fece sgorgare miracolosamente dalla roccia per dissetare la madre che si era recata da lui in visita.
Quest'acqua, chiamata "Acqua di S.Franco" sembra avere poteri miracolosi ed è diventata meta di numerosi pellegrini che si arrampicano attraverso i sentieri e si riuniscono davanti alla sorgente per berne l'acqua e bagnarvisi per guarire dai mali.
Ammirare il mondo dall'Eremo di S.Franco d'Assergi, riscaldati da un sole gentile , rinfrescati dal profumo del vento e incantati dalla nenia antica della sorgente che gorgheggia, riempie l'anima di una nuova vita, una vita che si confonde con la natura circostante e diventa tutt'uno con essa...
... Un ultimo sguardo al Cefalone pensando, con una lacrimuccia di commozione, a S.Franco e poi giù nella splendida valle di Campo Pericoli attraversando, come una iperbole, il lato orientale del Campo. Dopo essermi ristorato al mitico Rifugio Garibaldi, uno dei più antichi d'Europa, mi inerpico per un grande brecciaio, salendo per l'ultima grande salita fino al Passo della Portella, un antica ed importante via di comunicazione fra il versante Teramano ed Aquilano del massiccio.
Questo passo veniva attraversato dai valligiani di Pietracamela che trasportavano le balle di lana per la Val Maone, poi scendevano verso L'Aquila su pendii innevati mettendosi a cavalcare sulle balle: da qui il nome di Pizzo Cefalone (corruzione di scivolone) della vicina vetta.
Finalmente le salite sono finite e dopo una lunghissima discesa arrivo al traguardo accolto dalle voci festanti dei miei nipotini prediletti e chiudendo il sipario sullo spettacolo della corsa più bella del circuito: l'Ecomaratona del Gran Sasso.
Ciao a tutti i podisti che amano le belle montagne.
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Ettore Golvelli Gara: Ecotrail del Gran Sasso (17/08/2014) SCHEDA GARA |