"Sorrento" è sicuramente uno dei toponimi italiani più conosciuti al mondo. Un nome che fa pensare al mare, ai limoni, alla tarantella, ai Vip e agli alberghi di lusso che si affacciano sul mare, a momenti di vita gaia e leggiadra, a pescatori che prendono il largo su gozzi, a gite lungo la costa e cenette al chiaro di luna.
Più che un nome un mito.
Un nome che, oltre a calamitare milioni di persone verso la Penisola Sorrentina, viene utilizzato in ogni angolo più remoto del mondo per dare il nome ad alberghi, ristoranti, pizzerie, ma anche attività ed imprese di ogni genere. Tanta fama ha ragioni e spiegazioni perché il fascino di questa costa è antico quanto la sua storia.
Mi trovo a Termini, piccolo e incantevole borgo marinaro, su uno dei punti più alti della penisola Sorrentina, da dove si gode un panorama d'incomparabile bellezza che spazia dalla Costiera Amalfitana e prosegue per Capri e il Golfo di Napoli.
Dopo l'immancabile Inno di Mameli si parte e, dalla piazzetta di Termini, si scende in direzione di Marina del Cantone lungo un sentiero che ci condurrà, dopo una ripida discesa, verso la Baia di Jeranto, al centro della Riserva Marina Protetta di Punta Campanella.
Lungo tutta questa prima parte del percorso si gode di una splendida vista sulla Baia del Cantone e sullo sfondo si stagliano, nell'azzurro del mare, l'isolotto di Vetara e il mini arcipelago de Li Galli, le isole delle sirene. Man mano che ci si allontana da Nerano, altro splendido borgo marinaro, gli uliveti diventano meno frequenti e la macchia mediterranea prende il sopravvento.
In maniera quasi imprevista, dopo aver superato un piccolo bosco di carrubi e percorso una malandata scalinata,
la Baia di Jeranto appare all'improvviso, aprendosi con uno slancio che da l'illusione di un volo.
È letteralmente impossibile descrivere quanto sia bella questa baia. Altro che Sardegna, Caraibi, Maldive ... questo è un vero angolo del Paradiso.
Il mare è cristallino, la spiaggetta è molto carina ed è tutto ben curato. L'acqua della baia è di una limpidezza impressionante e i pesci nuotano felici intorno agli scogli.
All'interno della baia
il Mediterraneo erompe con profumi inebrianti e colori accesi, con una luce che può abbagliare e un aroma in grado di stordire.
Quaggiù c'è storia e leggenda nell'aria. Si avverte subito perché il silenzio maestoso ti avvolge con commozione e rispetto. Qui personaggi e miti si sposano.
Sugli scogli di questa penisola, alle immagini singolari di una costa selvaggia e bella, dove si incontrano personaggi di sogno che esaltano questi luoghi, e sotto gli occhi discreti di mille gabbiani, continua la poesia della natura nell'infinita ombra della fantasia.
E nella mia fantasia ... ho visto Ulisse.
In una grotta scavata nelle rocce della baia, la leggenda narra che le sirene di Omero costruirono qui la loro dimora e, ancora oggi, è possibile sentire l'eco del loro canto che risuona al ritmo della risacca. Leucosia e Partenope sono delle sirene, ma non quelle splendide creature decantate nel Medioevo, bensì dei mostri infernali metà pesci e metà uccelli, nati dai capricci degli Dei e sottoposti a maledizioni divine.
Adesso sono entrambe eccitate, lasciano la loro grotta e s'involano verso i perfidi scogli de Li Galli, dove preparano la trappola per la loro preda. Ed eccola la preda: una nave greca con una grande vela bianca che si dirige verso gli attraenti isolotti, per doppiarli e continuare la sua navigazione.
Quando la nave giunge in prossimità delle isole, s'ode la dolcissima voce delle sirene che chiamano Ulisse e gli rievocano le gloriose gesta compiute intorno a Troia. Il vento cessa di colpo e viene la Bonaccia tranquilla: un Dio avverso ha addormentato le onde. I marinai allora ammainano la grande vela e la gettano in fondo alla nave. Poi si siedono ai remi e fanno biancheggiare l'acqua con le lisce pale d'abete. Hanno la cera nelle orecchie e Ulisse è legato alla base dell'albero della nave.
Quando passano vicino alla prima isola le sirene intonano un canto melodioso. "Vieni qui, Odisseo glorioso, grande vanto degli Achei. Ferma la tua nave se vuoi ascoltare la nostra voce. Noi sappiamo tutto quello che nell'ampia pianura di Troia soffrirono gli Argivi e i Troiani, per volontà degli Dei. E sappiamo anche quanto avviene sulla Terra che nutre tanta gente".
Ulisse ascolta estasiato ma è legato; i suoi compagni remano. Passano oltre, non si fermano e, quando non si ode più la voce, si tolgono la cera dalle orecchie e sciolgono Ulisse dai legami. Le sirene, indispettite dall'insuccesso di farlo naufragare e battute dall'astuzia umana, si lanciano nell'acqua e annegano perdendosi nel Golfo di Napoli. Si trasformarono in roccia perché la loro maledizione era di morire se qualcuno non avesse subito il loro fascino.
È stata una sfida. Muore chi non è preparato, chi si azzarda ad un livello superiore che non ha ancora raggiunto. Le acque sono l'abisso e la morte, e le sirene sono una prova da superare. Ulisse ha affrontato la prova e l'ha superata alla sua maniera, usando la sua astuzia e la sua conoscenza, dominando i suoi istinti di uomo, dominando il suo Ego sottomettendolo con le corde che lo legavano, che rappresentano la volontà di Sè di sottomettere l'Ego.
Ulisse è un personaggio moderno, diverso da eroi come Achille ed Ettore. Da un lato un furbacchione, un mercante quasi; dall'altro il curioso per antonomasia, quasi antesignano dell'uomo di scienze, sperimentatore e sempre inquieto ricercatore.
Adesso è lì, sulla sua nave, sulla parte più alta della poppa. Dopo uno sguardo fugace sulle scellerate sirene in preda delle onde e al vento che ha ripreso a soffiare, volge lo sguardo verso la terraferma. Alza la mano nell'universale gesto del saluto e poi scende ai remi per vogare insieme ai suoi marinai, in attesa che il grecale sferzi di nuovo la grande vela bianca.
Addio antico eroe, desideroso e avido di conoscenza per sapere quali siano i confini del mondo e con quell'ansia di sapere che sfida i limiti umani. Qualcuno ti ha paragonato ad un superuomo, un essere superiore e sdegnoso verso la massa, rappresentata dai tuoi compagni di viaggio, tutti morti per dissetare la sua sete di conoscenza e gloria.
Io credo invece che Ulisse è solo un eroe stanco che vuole tornare in patria per riabbracciare i suoi affetti più cari, ma solo dopo aver attraversato l'odissea della comprensione del senso dell'esistenza umana ... adesso, riaprendo gli occhi, vedo e sento che, tra il verde argenteo degli olivi e il blu cristallino del mare, non riecheggia più il canto delle sirene ma il verso dei gabbiani che, dall'alto, vegliano sulla baia.
Riprendo a correre, o meglio a salire verso una pineta dalla quale si può ammirare un panorama sul mare che sà molto di cartolina. Col sole in alto il riflesso azzurro del mare è accecante e gli oggetti in acqua acquistano contorni argentei, quasi fosforescenti. A Nord c'è un paesaggio al quale non ci si abitua, con quel gran cono del vulcano e le cime del vicino Monte Somma, troncata dall'eruzione, messi li onnipresenti a sorvegliare uno dei più scenici palcoscenici del mondo.
Entro nella fresca pineta. Il sentiero è poco più di una traccia. Mi allontano dal percorso segnalato per un bisognino, infilandomi in una macchia di rovi isolata da fasci di vitalba e viluppi di smilace.
Filtrando tra il fogliame dei pini, il sole disegna nell'ombra, arabeschi di luce che confondono il contorno delle cose. All'improvviso, un fragoroso fruscio rompe il frinire delle cicale; una massa scura si materializza per un attimo tra gli arbusti e altrettanto rapidamente scompare. Mi avvicino agli arbusti. Nel suolo fangoso resta un impronta: due dita triangolari e, dietro, i segni più piccoli degli speroni. È tutto ciò che un cinghiale, sorpreso nel sonno, mi ha concesso di se.
Continuo a salire. Adesso il tragitto è un susseguirsi di panorami incantevoli contornati di colori accecanti, resi ancora più affascinanti dalle fioriture. Il verde e il grigio delle rocce si stagliano su uno sfondo blu di varie tonalità date dal limite della faglia continentale che si inabissa a circa mille metri di profondità, proprio davanti alla Punta della Campanella.
Punta Campanella è un teatro di storia e leggenda: secondo Omero qui Ulisse incontro le sirene, i Greci v'innalzarono un tempio alla dea Atena, convertita al culto di Minerva dai Romani. Nel 1300 qui fu costruita una torre che aveva lo scopo di lanciare l'allarme in caso di incursioni dei Saraceni che venivano dal mare. Sulla cima della torre fu messa una Campanella che suonava in caso di allarme, propagando il segnale alle altre torri posizionate sulla costa.
Oggi le mute e possenti rovine della torre evocano ammirazione, rispetto e meraviglia, mentre lo sguardo vaga tutt'attorno. Tra queste rocce e Capri hanno navigato Fenici, Greci, Romani, Bizantini, Angioini, Spagnoli e Borboni, oltre agli immancabili Saraceni e Turchi.
Distante solo tre miglia dal punto più vicino alla costa (Punta Campanella), che fa da spartiacque tra la riviera Sorrentina e quella amalfitana, appare in tutta la sua bellezza l'isola più famosa del mondo:
Capri.
L'isola nasce, letteralmente, dagli abissi: è appoggiata su di una piattaforma immersa nel mare profondo. Quando si sollevò dai fondali ed emerse, l'immane fatica levigo i fianchi e ne fece falesie, scoscendimenti, dirupi, nuda roccia, terribile e piena di fascino. Il mare, poi, ha completato l'opera carsica, addentrandosi ancor di più nelle grotte, modellandole. Ha isolato faraglioni e, con l'aiuto della pioggia e del vento, ha faticosamente scolpito torri e pilastri di roccia.
Un isola, di solito, è un impasto di mare e di terra ma a Capri non c'è linea di confine tra la costa e l'onda che batte contro le alte pareti di rocce, che si insinua nell'intrigo di cale, avvolge le punte, penetra negli archi, avviluppa i faraglioni, lambisce le grotte.
È un mondo unico, che non si arresta in superficie ma continua in basso dove il fondale si offre a facili esplorazioni o dove precipita nel buio abissale.
Sopra invece quasi mai Capri appare nitida, a causa di un controluce generato dalla sua posizione rispetto al sole e al sottile velo d'umido che sale dal mare e dalle colline. Solo quando il mare si fa blu sotto il soffio della tramontana e del grecale, e la superficie dell'acqua sbattuta dalle folate che rotolano dal Vesuvio, Monte Solaro s'imbianca di cirri d'onde, l'aria si deterge degli umori, acquista trasparenza e sottrae finalmente il tenue velame che si frappone tra l'occhio di chi l'ammira da lontano e l'isola.
Questo è il tempo della Capri che si apprezza, del fuori stagione, della scoperta di un altra dimensione fatta di silenzi e miti, di mare che scuote le scogliere, di grecale che soffia dalla penisola Sorrentina, o di scirocco che avvolge "la città e la terra", Capri e Anacapri, Monte S. Michele, il Tuoro e il Solaro, o di un tepore che spinge dal vivo e in diretta, anche in pieno inverno, la mediterraneità del suo clima.
Continua la corsa e si continua a salire. Giunti in cima s'incontrano alcune tracce di un epoca passata fatta di muri a secco e piccoli ricoveri di pietra per il bivacco dei pastori o ricovero di attrezzi. La cima è segnata da una struttura militare che occupa l'intera area e ci obbliga a deviare di nuovo verso la pineta che finisce ai piedi del sentiero che adesso ci conduce alla chiesa di S. Costanzo: ultima salita sul punto più alto della penisola Sorrentina.
Si scende e si arriva finalmente al traguardo di Termini dove finisce la corsa e lo spettacolo che solo questo posto può offrire.
Oggi ho trascorso una bella giornata in un posto incantevole
dove i profumi, i colori e le sensazioni provate lasciano incantati, proprio come successe ad Ulisse quando, in queste acque, incontrò le ammalianti sirene.