Solitudine del Maratoneta di Roberto Curcuruto, 27/03/2010
Due nuovi orange: Maurizio Ricci e Angelo Scanzani in via della Conciliazione (foto di Robert Bahcic) Sono le 8 e 30 del mattino e nelle gabbie c’è talmente tanta gente che in calzoncini e canotta fa quasi caldo. Si parte, la banda che suona, la folla che saluta. La festa comincia, la sfida comincia. Il multicolore popolo maratoneta, un fiume umano in piena, trotterella a ranghi serrati, per tutti i fori imperiali.
La mia prima volta, non conosco me stesso su questa distanza, non ho mai superato i 21 km. Dentro me c’è un mondo di emozioni, la paura di non farcela e la gioia di esserci, una lacrimuccia fa capolino sotto gli occhiali. Mi incollo ai palloncini blu delle 4,30, utopia e speranza.
Quando le fila si allentano su viale Aventino, la vera corsa comincia, cominciano anche i primi insignificanti dolorini. Una piccola fitta trafigge il fegato, sparirà poco dopo lasciando il posto ad un dolore sull’avampiede a sua volta sostituito da un risentimento al quadricipite. Dolori migranti che non lasciano il segno.
Con me c’è Umberto, ci siamo allenati insieme e senza di lui non avrei mai approcciato ad una distanza così importante. Dopo circa sette km viste le buone sensazioni ci stacchiamo dai pacemakers allungando di poco il passo. Nonostante tutto mi sento precario ed incerto, come se stessi aspettando la cattiva notizia, i piedi viaggiano ma la testa frena, ha paura.
Cominciano i rifornimenti arance e liquidi mi danno brio e mi sento bene, lungo Tevere è alle spalle ed entriamo in Prati, mi sento bene il passo è buono, la mezza maratona è vicina, fino a quel momento non ho mai realmente guardato il tempo, ma ora lo debbo fare ed è una bella sorpresa 2 ore e 10 se perdo un minuto a km arrivo comunque in 4,30, mi sembra impossibile. Da adesso in poi ogni chilometro è una distanza sconosciuta, è una piccola vittoria.
Poco dopo Umberto da segni di cedimento, non tiene il passo provo a stargli vicino e tirarlo ma lui mi dice di andare, su viale di Tor di Quinto lo lascio e mi arrampico sulla tangenziale. Mi sento bene ma ho paura, sono solo e mi manca il compagno che in molte occasioni mi ha spinto oltre la fatica. Su via della moschea i primi segni di sconforto, dopo 26 km la stanchezza si fa sentire, le gambe si fanno dure ed il traguardo è spaventosamente lontano, mi comincio a dare dei mini obbiettivi, il 30° km, che arriverà dopo 3 ore e 8 minuti, poi il 32° così posso calcolare gli ultimi 10 e fare una stima del tempo finale.
Finalmente si entra nel centro storico, la testa ha vinto la partita con la paura, ora so che posso farcela, “pietrino” però sotto le scarpe è scomodo e pericoloso, ennesimo handicap che bisognerà superare. Largo Argentina, piazza Navona e poi via del corso che non pensavo potesse essere tanto lunga, soffro più che in altre parti. Bisogna fare il giro di piazza del Popolo, speravo di girare prima, via del Pellegrino sembra intasata, fontana di Trevi neanche la vedo, ho il capo chino e guardo solo il succedersi dei piedi, alzo la testa e vedo la bandiera dei 39 km mi emoziono e piango ancora so che sto per compiere una piccola impresa.
Mi sento solo, non esiste nessuno che può condividere questo momento, e non perché non ci sia gente intorno a me, ma perché questa disciplina ti mette a contatto con i tuoi fantasmi, con la tua testa. La tua fatica è solo tua. Nessuno può aiutarti ad andare avanti, sei solo con te stesso sei solo tu che sceglierai di ascoltare le gambe e fermarti o la testa ed il cuore per andare avanti. Il maratoneta è solo. E’ paradossale pensare che in questo sport su diecimila persone che scendono in gara solo un pugno di uomini compete con l’avversario, tutti gli altri competono con se stessi, e non si può barare, non ci sono giudici se non la nostra coscienza.
Scendo per piazza Venezia, ultimo rifornimento, sono indeciso se mangiare o saltarlo, perché al ristoro perdo molti secondi e soprattutto perché la ripartenza è faticosa per centinaia di metri. Decido comunque di prendere qualcosa ed infatti la salita di via dei cerchi la pago cara. Ultimo km, 4 ore e sedici e spiccioli di secondi che però non leggo, miracolosamente mi sento bene, nessun dolore anestesia totale e soprattutto gioia, metto le ali ai piedi e corro più veloce che posso verso il traguardo. 4,22,32 incredibile, impensabile, ma meravigliosamente vero.
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Roberto Curcuruto
Roberto alla Maratona di Roma (foto di Patrizia De Castro) Gara: Maratona di Roma (21/03/2010) SCHEDA GARA |