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La sindrome di cappuccetto rosso
di Maurizio Zacchi, 30/06/2013

La corsa è tante cose, troppe per poterla etichettare.

Ogni volta che qualcuno lancia un sondaggio intorno alle motivazioni che ci sono dietro la corsa, tra il serio ed il faceto, vengono fuori una miriade di motivazioni diverse.

La corsa è certamente divertimento, relax, una fuga dallo stress quotidiano. Ma non basta tutto questo a giustificare questa passione crescente che attanaglia la maggior parte dei runner e che li porta a confrontarsi continuamente con sfide e avventure sempre più ambiziose.

La corsa è anche una sfida alle proprie insicurezze, un modo di andare oltre i propri limiti e le proprie paure, anche quelle più ancestrali.

Altrimenti cosa spingerebbe un manipolo di runner a buttarsi in un bosco di notte, per la maggior parte di loro in un territorio assolutamente sconosciuto, armati solo di una luce sulla fronte?

È quello che mi sono chiesto per tutta la scorsa settimana, da quando ho deciso di iscrivermi alla Notturna alle cascate di Castel Giuliano. Sentivo una certa ansia dentro di me di fronte a questa scelta, mentre la mia parte razionale classificava tutte le ragioni serie e intelligenti per non farla, incluso il mio problema di alimentazione e un piccolo intervento chirurgico subito venerdì mattina.

"Perché stai facendo questa pazzia, perché buttarti di notte in un bosco sconosciuto?" Già perché?

Forse una sorta di paura ancestrale, che bonoriamente ho definito la "sindrome di cappuccetto rosso", con tutte le storie che fin da bambino la mia mente ha associato al bosco di notte. La paura di non trovare più la strada, la paura di cadere e farsi male, la paura di fare brutti incontri, la paura di immergersi in un mondo che al calare delle tenebre cambia la sua natura, da bonaria e amichevole, ad angosciante e maligna. Lupi cattivi, Folletti, Gnomi, Streghe, e chi più ne ha più ne metta.

Tutto questo affollava la mia mente mentre ascoltavo il poco rassicurante briefing dell'organizzatore prima della partenza. Per completezza bisogna anche aggiungere che il punto di ritrovo era stato posto dentro una necropoli etrusca, il che non era certo di aiuto.

Ma come sempre nella corsa c'è un momento in cui ci si butta tutto dietro le spalle...è il momento della partenza, quando la mente dimentica le paure e si concentra sull'obiettivo da raggiungere.

Eppure un senso di incertezza rimane in me fino al bivio che separa il percorso corto, ipoteticamente 11 km, dal percorso lungo, ipoteticamente 18 km. Arrivato al bivio la mia sfera razionale prevale e opto per quello corto. Penso all'orario d'arrivo, alla famiglia che mi aspetta a casa di sabato sera, ma anche ad avere più tempo per recuperare da un eventuale "smarrimento".

Resto solo, perché quello è il percorso del trekking, mentre io ho deciso di farlo correndo. Magari per una volta sono anche in testa, chi lo sa. Le mie paure svaniscono, perché il percorso è veramente bello e sembra anche agevole, a parte qualche piccolo tratto, perché c'è ancora una buona luce naturale, perché sto bene fisicamente e le mie gambe sembrano assecondare la mia intenzione di arrivare presto. Penso che se continua tutto così in poco più di un'ora posso essere al traguardo.

I rumori del bosco nel silenzio assordante della solitudine aumentano d'intensità ed è sempre più forte il rumore dell'acqua che mi accompagna verso il punto più suggestivo del percorso: le cascate di S.Giuliano. La luce naturale è sparita di colpo, nascosta dal fitto sottobosco e la forza e l'impetuosità dell'acqua che cade da una parete di almeno 15 metri sopra la mia testa, mi lascia letteralmente senza fiato.

Un minuto di raccoglimento e poi l'istinto mi dice di ripartire, ma qui arriva la prima sorpresa. La mia luce frontale illumina i segnali catadiottrici che dovrebbero accompagnarmi fino all'arrivo...sono dappertutto. A sinistra, a destra, in alto, in basso. Provo a prendere il sentiero più razionale ma il senso di smarrimento è totale. Giro in tondo e mi ritrovo sempre alle cascate. A un certo punto vedo altri puntini luminosi che si avvicinano e l'idea di non essere più solo mi tranquillizza. Ma i primi che mi raggiungono hanno un senso di smarrimento superiore al mio e questo non aiuta.

Arrivano altri, che sembrano decisamente "più esperti", ma anche loro non riescono a comprendere quale sia la via giusta. Allora si affidano alle loro conoscenze e ci "trascinano" su quello che sembra il percorso più breve per tornare all'arrivo.

Cerco di seguirli, ma mi trovo al centro tra i più veloci e sicuri e i più lenti e timorosi, con l'ambizione di mantenere unito il gruppo. A un certo punto sono l'ultimo del gruppo più veloce, ma non ho voglia di lasciare indietro gli altri. In quel gruppo c'è anche il figlio di una mia amica, che non è molto esperto di trail. Al primo bivio importante mi faccio indicare il percorso dal gruppo più esperto e attendo i ritardatari. C'è rimasto solo lui, il ragazzo che aspettavo, gli altri hanno preferito tornare indietro ad attendere gli altri. Non si sono fidati.

Mentre scendevo rapido dietro gli "esperti", il mio occhio aveva colto una delle più belle immagini di questa corsa: un costone della montagna illuminato dalla scia delle luce frontali che disegnavano strane figure. Un qualcosa che mi ha dato maggiore sicurezza. Non siamo soli.

Riparto con il mio nuovo compagno e affrontiamo quella che diventerà la nostra piccola avventura personale.

Nei trail ci si lamenta spesso della carenza di segnali, qui invece c'è il problema contrario. Ci sono segnali dappertutto, tanto da far pensare che il marcare il bosco con dei materiali catadiottrici, sia lo sport preferito dalla popolazione locale.

La natura si fa sempre più densa e angosciante, ma nella parte più fitta della vegetazione si crea la terza immagine che porterò via con me. Una sorta di tripudio luminoso: le lucciole. Ce ne sono un'infinità e mi riportano alla mia infanzia, nelle mie estati a Raggiolo, quando le lucciole erano una compagnia abituale dei nostri giochi.

Sono così tante da rendere difficile l'identificazione dei segnali rifrangenti e quasi da rendere superflue le nostre luci frontali.

Al di là di questo il senso di smarrimento tende ad aumentare. Avrei voglia di accelerare la mia corsa, ma il mio compagno fatica e devo contrastare la sua intenzione di fermarsi. Ha un calo ipoglicemico, ma fortunatemente nella mia cinta ci sono le barrette. Ne mangia una e ritrova subito l'energia perduta. Riprende a camminare e poi anche a correre.

Superiamo un cancello di sbarramento con messaggi molto poco "invitanti", che preferiamo ignorare, visto che l'alternativa è tornare indietro...

Guadiamo un fiume nel punto più fitto del percorso. Controllo il mio GPS e il suo responso non è dei migliori. Siamo ben oltre gli 11 km. Ancora una dura salita che sembra immergersi ancora di più nel sottobosco, mentre in teoria dovremmo essere già arrivati.

Ma alla fine della salita lo scenario si fa più rassicurante, diventando quasi familiare. Si, siamo sulla via del ritorno. In lontananza si intravedono le luci di Cerveteri e il sentiero è tornato quello dell'andata.

Un ultimo sforzo intervallato da qualche altro momento di incertezza, ma finalmente ci siamo. Torniamo al punto di ritrovo, siamo tra i primi ad arrivare dopo il gruppetto degli "esperti", che ci salutano calorosamente. Il mio GPS dice che ho percorso 15 km, a dispetto degli 11 programmati.

Ma la cosa che mi piace di più è leggere la soddisfazione negli occhi del mio giovane compagno. Sente di aver fatto qualcosa di grande e temo che il fuoco della corsa e dell'avventura possa impadronirsi anche di lui.

Forse anche lui tra qualche anno si chiederà ogni volta perché. Penso che è sabato sera, che mi stanno aspettando a casa. Mi osservo sudato e pieno di fango e mi ripeto perché.

Davanti a me c'è il mio compagno di squadra Gigi Martinelli. I nostri sguardi si incrociano e all'unisono recitiamo la formula ormai rituale e forse rassicurante di tutte queste gare così impegnative: "Ma chi ce lo fa fa'...".


Gara: Notturna alle cascate di Castel Giuliano (29/06/2013)

SCHEDA GARA



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