L'Alto Casertano è sempre stata un'importante porta d'accesso alla Campania, ecco perché castelli, torri, borghi fortificati ancora oggi portano memorie storiche di un passato teso a difendere e sorvegliare le principali vie; alcuni ancora intatti, maestosi e compatti anche se spesso mal tenuti mentre di altri ci rimangono solo rovine che però, visitandole, camminandoci attraverso, ci trasmettono ancora quello spirito di solerzia e diligenza che accomunava i popoli antichi nel costruire e poi abitare in luoghi sicuramente all'epoca disagiati.
Ecco,
la corsa di oggi ha proprio lo scopo di offrire ciò, sensazioni e retaggi passati, acquisire un contatto con vite passate.
Giornata perfetta per una corsa:
cielo blu, profili scolpiti delle valli, atmosfera d'Autunno, calma e silenzio. Mi trovo in cima ad un colle, sul piazzale di un bel castello che troneggia su Vairano Patenora, un piccolo paesino dell'Alto Casertano che oggi ci ospita per il trail odierno.
Il castello è maestoso: quattro torri che guardano dall'alto la fertile valle del Volturno, dalla Casilina all'Autostrada del Sole, lo sguardo si apre su una distesa di borghi e cittadine. L'interno è ormai completamente diruto però sono ancora ben visibili la suddivisione dei piani, le cucine, le carceri e l'antica cisterna.
Ciò che resta è l'eleganza del borgo, le sue strade e le sue costruzioni a dimostrazione di quanto fosse fiorente e vitale l'epopea medioevale legata all'allevamento e alla lavorazione dei prodotti di questa fertile terra.
Tutto in un atmosfera di sogno e di favola che fa ritornare alla mente cavalieri, dame, duelli, amori... tutti ricordi di un mondo lontano oramai scomparso per sempre.
Adesso sono sulla torre più massiccia, detta "torre mastra". Lo spettacolo è stupendo.
Le colline, le valli, i boschi, tutto ciò che si staglia sulla pianura sottostante è un primo passo verso la grande montagna che si avvicina da Nord con le sue creste, i suoi valichi, le sue pietraie. A Sud gli spazi aperti e sconfinati della Valle del Volturno delimitati da creste rocciose sulle quali emergono cime poco ardite.
Sotto, i vasti pascoli sono un prato inglese con tanto di laghetto e manca solo di vedere Tiger Woods per rinunciare definitivamente a credere di essere in montagna. Eppure sono qui, in un angolo sconosciuto e selvatico, negletto e abbandonato dal grande turismo.
Lo speaker della corsa mi richiama agli obblighi odierni e cioè di iniziare questo Trail che si prospetta molto bello. Si parte e si comincia subito a salire lungo una sterrata in direzione opposta al borgo entrando subito in una verdeggiante pineta.
Quassù il bosco è di un bel verde e la pineta di un tomo cromatico più cupo mentre la faggeta che si scorge da lontano brilla di mille sfumature che si distendono verso la valle sottostante. Un vento tiepido, forse venuto dal Sud, risale la montagna facendo cantare gli alberi con un piacevole e flebile suono.
La luce dell'Autunno penetra a tratti i fitti rami dei pini, con chiazze di gialle tra le più vaste ombre della pineta. Lo spesso strato di foglie di pini che macerano il sottobosco spande un odore di humus profumato mentre, al sole, le rade fioriture di tepali violetti su piccoli prati attirano ancora qualche laborioso insetto, cosa molto inusuale in questo periodo dell'anno.
Qui il bosco rappresenta l'ordinario, la distesa quiete e uniforme, immota e immobile. L'albero domina lo spazio, ci riporta alla dimensione primordiale, soverchia con la sua altezza, opprime e è incombe con cortine di fronde impenetrabili, impedisce lo sguardo, occulta l'orizzonte, soffoca il respiro.
Adesso mi muovo spinto dalla ricerca interminabile del varco tra gli abeti, aiutato dalle balise appuntate come coriandoli festivi. Cerco disperatamente dello spazio vuoto e libero, come una meta incredibile e lontana, come un vago desiderio, in una ragnatela di sentieri che girano per i meandri di questo bosco opprimente.
E finalmente esco nell'unico spazio differenziato:
la radura della cima di Monte Caievola, l'approdo dopo un lungo vagare, lo squarcio dove respirare, trovando l'azzurro del cielo che mi regala un panorama che prima prende il cuore e poi la mente.
Non mi resta che abbandonarmi alla vertigine della contemplazione sulla sommità del monte, grazie ad una vista che spazia a 360 gradi su tutto l'Alto Casertano, alternando i massicci dei Monti del Matese (le mie montagne) alla dolcezza di valli e pianure coltivate in geometrici appezzamenti, lungo territori attraversati dal sinuoso corso del fiume Volturno.
Quassù la luce cambia col trascorrere del tempo ed uno spettacolare cielo mi sorprende da togliermi il fiato. A Nord, prati sfavillanti di verde tra grigi massi, ospitano gruppetti di allegri animali da pascolo. E mentre un falco cerca di distrarmi con le sue evoluzioni, il mio sguardo corre verso piccole vallate formate dal corso del fiume, decorate come tavolozze di colori autunnali da vigneti, frutteti e pascoli, separati da macchie e siepi.
Quassù lo scenario è veramente bello. Quando la visibilità lo permette in lontananza si distingue un'ampia cerchia di montagne, alcune coperte con nuvolaglia bianca che sembra neve, altre di color grigio bruno che un podista del posto riesce a distinguere una ad una, chiamandole per nome, quasi con tenerezza.
Adesso si scende lungo un arido sentiero che ci porterà a Pietravairano che già si intravede in lontananza. Anche se la costa della montagna sembra disabitata, muri a secco disordinati e fatiscenti cancelli di legno delimitano pascoli di proprietà: testimonianza di una presenza umana relativizzata ed in sintonia con l'ambiente circostante. Qui la mano dell'uomo campestre mostra in modo sgradevole il suo intervento sul paesaggio.
Si scende adesso nel borgo di Pietravairano, un antichissimo borgo medioevale della valle del Volturno, con un cuore antico che batte dal lontano Medioevo, fatto di viuzze acciottolate, di case addossate ai massi scagliosi, di mura e bastioni difensivi.
Il borgo è incantevole. È situato su di uno sperone emergente al centro di una piana ed è attraversato da diverse stradine e viuzze in cui risaltano gli spettacolari scalini in pietra viva che s'inerpicano tra i vicoli, passando tra volte caratteristiche fatte con travi che uniscono una costruzione all'altra... e anche grotte misteriose e pericolose: un podista si è spaccato la testa entrandovi per un bisognino!
Il borgo è racchiuso da dodici grosse torri a forma cilindrica ove, nei secoli, si rifugiavano i contadini per difendersi dagli attacchi dei nemici.
Qui è il paese. Con i suoi personaggi protagonisti di momenti e di fatti che si ripetono nel tempo. Con le sue donne, le sue abitudini, gli uomini vecchi e nuovi, con il carico di vita, i ragazzi in allegria che giocano con la miseria. Passano le caprette e l'asino, compagni di fatica, e la ragazza col fascio d'erba fresca per i conigli che aspettano impazienti. E la chiesa, col suo grande e usurato gradino di marmo che allarga il significato ai fatti di tutto il paese, ai segreti di ognuno, ai momenti di commozione e di ansia di ogni cristiano, alla speranza degli afflitti che ricorrono a Dio.
Ma Pietravairano è diventata famosa da poco anche per un altro suo gioiello:
il teatro tempio romano.
E qui bisogna ritornare indietro di qualche anno per conoscere i fatti. Tutto cominciò una mattina del febbraio del 2000, una di quelle giornate fredde, luminose e senza vento, ideale per volare e fotografare, un mio compaesano e carissimo amico appassionato di ultraleggeri, volteggiando nei cieli della Valle del Volturno, il suo sguardo puntò su dei ruderi di quello che presto si sarebbe rivelato uno spettacolare teatro-tempio di epoca romana, unico nel suo genere. Se non altro per la scenografica posizione in cima al monte, concepito dai Romani per essere esposto all'ammirazione di tutti, che fossero Sanniti, Etruschi o chiunque altro percorresse quelle strade.
Per arrivarci dal basso bisogna salire verso monte S. Nicola, una salita che consente di immergere lo sguardo in un paesaggio di grande bellezza prima di arrivare a chiedersi, di li a poco, cosa ci facciano a quell'altezza un teatro e un tempio, qui da millenni, simbolo perduto e finalmente ritrovato, di quella sintesi mirabile di etica ed estetica e del legame fra rito e rappresentazione espressi dal teatro delle origini nel quale, paragrafando Platone,
"la potenza del bene trova asilo nella natura del bello". Del resto per gli antichi il tempio, così come il teatro, erano strumenti utili, ciascuno a modo suo, per interrogarsi sui significati più reconditi della vita.
Del tempio non è rimasto un granché, si intravede poco più della struttura a pianta rettangolare. Il teatro invece, posto leggermente più in basso, è stato in parte ricostruito ex novo.
Eppure nonostante ciò si può, con un po' di immaginazione mista a romanticismo, tornare indietro di millenni. Nella cavea semicircolare che affaccia a strapiombo sull'immensa vallata riesco a sentire ancora gli applausi e le risate degli spettatori romani rimbombare in tutta l'area circostante.
Adesso sto li, fermo, ad interrogare le enigmatiche pietre su cui poggiano i miei piedi. E mentre me ne sto su di uno spalto del teatro, mi sembra di essere sospeso nel vuoto, sulla prua di quella nave senza meta che si chiama storia.
Questa mirabile struttura è la protagonista indiscussa di un anonimo monte e fa riflettere ancora una volta sulla capacità dell'uomo in grado di fondere architettura e natura, arte e bellezza.
E qui finisce la mia corsa, più culturale che sportiva, attraverso il piccolo mondo dell'Alto Casertano fatto di castelli e borghi che sono i veri custodi della storia di questo territorio e racchiudono entro le loro antiche mura i ricordi culturali che procurano le emozioni che solo le pietre antiche hanno il magico potere di darti.
Buoni chilometri a tutti.