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Le voci del mare e della montagna
di Ettore Golvelli, 14/06/2017

Due voci potenti sento spesso nel nel mio cuore: quella del mare e quella della montagna.
Il mare perché è il luogo dove vi è più energia al mondo, dove l'elemento acqua si unisce al l'elemento terra, e perché in riva al mare, al sole, dove anche l'elemento fuoco è presente, l'energia è ancora maggiore.
Il mare perché quando i miei pensieri  sono ansiosi, inquieti e cattivi, esso li manda via con i suoi grandi suoni larghi, li purifica con il suo rumore.
Il mare, perché incanta, uccide, commuove, spaventa, fa anche ridere alle volte; e poi costruisce tempeste, divora navi, regala ricchezza, non da risposte ma è saggio, è dolce, è potente e imprevedibile. Ma soprattutto perché il mare... chiama.
La montagna perché quando corro su di essa per me significa entrare nella natura. E per questo che corro lentamente. La natura per me non è un campo di ginnastica. Io vado in montagna per vedere, per sentire, per assaporare gli umori dei boschi e degli animali, con tutti i miei sensi. Così il mio spirito entra negli alberi, nei prati, nei fiori, nelle rocce, nel vento, nelle nuvole.
E soprattutto perché la montagna  insegna a vivere e regala sempre emozioni; e mi ha insegnato a non barare, ad essere onesto con me stesso e con quello che facevo.
E poi perché nelle vibranti e libere corse sulle rocce tormentate, nei lunghi e muti colloqui con il sole e con il vento, o con l'azzurro del cielo, o nella dolcezza un po' stanca  di un delicato tramonto, io ritrovo un po' di serenità  e la tranquillità che solo una montagna può darti.
E oggi il richiamo è particolarmente forte perché corro in un posto dove il cielo e il mare si fondono in un paesaggio da incanto, sopra un sentiero che il tempo e la mano dell'uomo  non ne hanno scalfito l'originale bellezza, un sentiero di sogno da vivere tutto d'un fiato, lontano dalla frenesia della quotidianità, immerso nella natura più selvaggia, circondato da lecci e corbezzoli, persuaso da odori e colori che non hanno eguali.

Oggi mi trovo a Termini, piccolo ed incantevole borgo marinaro di Massalubrense, la cosiddetta "Terra delle Sirene", agli estremi della Penisola Sorrentina, protesa verso l'isola di Capri e contornata da circa venti chilometri di costa bagnati dai due golfi, quello di Napoli e quello di Salerno.
Il territorio, ricco di storia, miti e tradizioni, è dominato da uno splendido paesaggio mediterraneo ed è attraversato in lungo ed in largo da una rete di sentieri di oltre cento chilometri, collegando le varie frazioni (ben diciotto) che fanno parte del comune.
Leggenda vuole che da queste suggestive coste le sirene videro il passaggio della nave di Ulisse e dalla Baia dello Ieranto partirono per ghermire la loro preda.
Lo Ieranto è l'ultimo sforzo che miliardi di anni fa la Penisola Sorrentina fece per allungarsi fino all'isola di Capri, li accanto, e poi tentare di andare oltre, ancora oltre, verso un orizzonte che forse è un utopia. È uno spazio appartato della Costiera Sorrentina, inaccessibile se non con fatica e volontà, un luogo "lontano" che permette l'esperienza della pacatezza, del vuoto, del silenzio, della distanza. La lontananza dello Jeranto dal fragore e dal sovraffollamento del nostro quotidiano, rende il luogo un rifugio, uno spazio di libertà nella stabilità.
Ma Jeranto non è semplicemente una meta. Jeranto è soprattutto un percorso che comincia col sentiero che dal villaggio di Termini, dove oggi inizia la mia corsa, e conduce alla baia, alla base di un costone roccioso e scende su un sentiero ripido su di un mare sconfinato a mezzogiorno.
Il mare che stamattina, dall'alto, era un torbido fondo di nuvole ai margini del cielo, adesso si fa prima  una striscia d'un cupo sempre più denso ed ora è un grande urlo azzurro al di la d'una balaustra di montagne e case.
Sotto l'azzurro fitto del cielo un gabbiano se ne va tranquillo, non sosta mai, perché tutte le immagini del mare portano scritto "vai sempre più in la".
L'insenatura dello Jeranto non è mai visibile, il sentiero non rivela mai anticipazioni. Pochi sono gli spunti concessi all'immaginazione. Eppure, in maniera quasi imprevista, dopo aver attraversato un bosco di carrube, essa appare all'improvviso, aprendosi con uno slancio che da l'illusione del volo, la stessa che prova un paracadutista appena si lancia dall'aereo. È un posto bellissimo.
Il mare è cristallino, la spiaggetta è molto carina ed è tutto ben curato. L'acqua della baia è di una limpidezza impressionante e i pesci nuotano felici intorno agli scogli.
Mi fermo e la guardo estasiato: non c'è niente più bello al mondo in cui vedi tutte le volte il mare che cerca di baciare la spiaggia... e non importa quante volte viene mandato via.
In questi posti il mare è un immenso deserto dove l'uomo non è mai solo perché, dovunque guarda, sente sempre fremere la vita.
Qui il mare è come la nostra anima, ci insegna continuamente qualcosa con il suo agitarsi o con i suoi momenti di calma assoluta. La sua è l'eterna voce del l'infinito e del tempo. I millenni non hanno cambiato nulla della sua vita di mare: le stesse onde, le stesse maree, le stesse tempeste. Tutto come all'alba della Creazione quando la luna illuminava un mondo semi deserto.
Ma quaggiù, allo Jeranto, c'è anche storia e leggenda. Si avverte subito nell'aria perché il silenzio maestoso ti avvolge con commozione e rispetto. Qui personaggi e miti si sposano.
In una grotta scavata nella roccia della baia, la leggenda narra che le sirene di Omero costruirono qui la loro dimora e, ancora oggi, è possibile sentire l'eco del loro canto che risuona al ritmo della risacca. Il canto che, sui perfidi scogli de Li Galli, dovevano servire per adescare la loro preda: la nave di Ulisse.
Adesso invece, riaprendo gli occhi, vedo e sento che, tra il verde argenteo degli olivi e il blu cristallino del mare, non riecheggia più il canto delle sirene ma solo il verso dei gabbiani che, dall'alto, vegliano sulla baia con i loro leggiadri voli.

Continuo a salire.
Il paesaggio ora è più gentile, con prati fioriti, molle groppe erbose e tutta una serie di ripiani coltivati che digradano verso il Golfo di Napoli.
Adesso il tragitto è un susseguirsi  di panorami incantevoli, resi ancora più affascinanti dalle fioriture. Il verde e il grigio delle rocce nel mare si stagliano su di uno sfondo blu di varie tonalità  generato dal limite della faglia continentale che s'inabissa a circa mille metri di profondità, proprio davanti alla Punta della Campanella, un altro teatro di storie e leggende.
Qui, tra queste rocce e Capri, hanno navigato Fenici, Greci, Romani, Borboni e gli immancabili Saraceni. Qui le antiche navi greche e romane sostavano in attesa delle condizioni meteo favorevoli per poterlo doppiare. E della sosta approfittavano gli equipaggi di quelle navi  per portare doni alla divinità  per ingraziarsene i favori, raggiungendo sulla costa il tempio dedicato alla dea sui cui resti sorge, in prossimità del faro, l'attuale Torre Mozza.
Oggi le mute e possenti rovine della torre evocano  ammirazione, rispetto e meraviglia ma i miei occhi, che vagano sempre tutt'intorno, incrociano subito... l'isola più bella del mondo: Capri.
È un vero spettacolo della natura.
L'isola, vista dalla Punta della Campanella, sembra nascere dagli abissi ed appoggiata su di una piattaforma immersa nel mare profondo. Nei millenni il mare si è addentrato nelle grotte modellandole, ha isolato i Faraglioni e, con l'aiuto delle piogge e del vento, ha faticosamente scolpito torri e pilastri di roccia.
Sopra invece quasi mai Capri appare nitida, a causa di un controluce generato dalla sua posizione rispetto al sole e al sottile velo d'umido che sale dal mare e dalle colline. Solo quando il mare si fa blu  sotto il soffio della Tramontana e del Grecale, e la superficie dell'acqua è sbattuta dalle folate di vento che rotolano dal Vesuvio, Monte Solaro (la cima più alta di Capri) s'imbianca di cirri d'onde, l'aria si deterge dagli umori e acquista trasparenza,  e sottrae finalmente il tenue velame  che si frappone  tra l'occhio di chi  l'ammira da lontano e l'isola.

E qui finisce la mia corsa, il mio sogno e lo spettacolo che solo questo posto può offrire.
Amo questi posti perché amo la mia terra e perché in ogni stagione, in ogni momento mi regala sempre nuove emozioni. Emozioni che mi appagano e rinnovano la mia voglia di conoscere meglio la mia terra, il mio paese.
Amo la montagna e il mare perché hanno questi paradossali capacità: da una parte ci mostrano quanto siamo creature piccole e finite; dall'altra abbiamo la percezione di una infinità che non è estranea ma ci appartiene.
E qui sta il pericolo, perché dobbiamo aprire gli occhi sulla realtà: l'uomo sta distruggendo ciò che la natura ha impiegato miliardi anni a creare.
Il mare e la montagna sono in pericolo, sono ad altissimo rischio. Siamo tutti assassini perché non amiamo il nostro pianeta... non l'amiamo come fosse parte della nostra famiglia, della nostra vita.
Ciao e buoni chilometri a tutti.


Gara: Trail Jeranto Punta Campanella (04/06/2017)

SCHEDA GARA



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